Due fratelli in eterno conflitto, Coleman (Claudio
Santamaria) e Valene (Filippo Nigro). Un prete (Massimo de Santis) con perenni
crisi di fede. Una “ragazzina” (Nicole Murgia) che vende whisky di
contrabbando. Questi sono i quattro personaggi dello spettacolo andato in scena
al Teatro Gentile lo scorso sabato, “Occidente solitario”(di Martin McDonagh,
regia di Juan Diego Puerta Lopez).
Lo scenario è quello di un folle paesino d’Irlanda,
dove vivono Coleman e Valene. I due fratelli hanno appena perso il padre (solo
loro sanno come) e, anziché vivere normalmente il loro dolore, pensano solo a
bere whisky. Valene è una persona estremamente possessiva: segna l’iniziale del
suo nome su tutto ciò che è suo, sulla casa lasciatagli in eredità, sul forno a
legna rosso che ha da poco comprato e nutre un’ossessione particolare verso le statuine
di santi con cui ha riempito l’abitazione. Il fratello Coleman invece non
possiede nulla: tutto ciò che riesce a fare è bere di nascosto il whisky di
Valene e rubare le sue patatine, ovviamente quando non è in giro per
partecipare da scroccone al banchetto di qualche funerale.
Quando i due si trovano insieme la lite è scontata:
non riescono ad andare d’accordo sin da bambini e le loro vite sono trascorse
tra diffidenza reciproca e stravaganti vendette. Anche nei momenti più
tranquilli la violenza tra loro è sempre pronta ad esplodere, basta una sola
parola.
L’unica persona che cerca di farli riunire è Padre
Welsh (o Walsh?), un parroco dal carattere debole e dal vizio dell’alcool che, in
preda alle sue sbronze tristi, manifesta ingenti crisi di fede, crisi
accentuate dalle tragiche vicende che si susseguono nel paesino e di cui lui si
sente responsabile.
Tramite importante tra il parroco e i due fratelli
è una ragazza senza nome, che tutti chiamano “ragazzina”. Lei, giovane e bella,
vende whisky di contrabbando porta a porta attirando gli sguardi maliziosi di
tutti e nutre un affetto particolare per padre Welsh.
Tutto lo spettacolo ruota intorno alla solitudine
dei personaggi che non riescono ad avere un rapporto umano perché profondamente
disadattati ed irascibili, quasi brutali. E la loro brutalità è dipinta da un
linguaggio forte e da gesti folli. Tutto
è portato all’eccesso durante lo spettacolo, sia la caratterizzazione dei
protagonisti sia i fatti che si susseguono, un eccesso che diventa a tratti ironico ma dietro cui è ben
presente l’incomunicabilità dei personaggi e la loro perenne solitudine. Un noir grottesco
che tocca un tematica attualissima. Dietro al “solitario” del titolo dello
spettacolo si trova insomma la chiave di tutta questa commedia un po’ amara.